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Guardiagrele: torna il freddo, tornano gli addobbi natalizi, torna il Natale e tornano i fuori sede.

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Da Milano, da Bologna, da Roma, da Madrid, da Londra, ciascuno compie il piccolo rito annuale di farsi la valigia e mettersi in viaggio. I biglietti sono quelli che acquisti troppo presto o troppo tardi, i biglietti che controlli più volte di aver messo in borsa prima di partire, i biglietti che non trovi tra libri e cassetti, quelli che in fondo non sei mai sicuro se vadano realmente bene. Nei bagagli metti caos e vestiti, disordini e proiezioni perché i ritorni creano atmosfere possibili in luoghi familiari, momenti di ripetitiva quotidianità spezzata, messa da parte e ripresa nelle occasioni speciali, inghirlandata per il Natale, fresca per la Pasqua o stanca e accaldata per l’estate. Poi arrivi, respiri, guardi; tutto è uguale e tu sei sempre più diverso. Sarà che gli orologi, con le ore , scandiscono anche le vite degli altri. Torni e ti accorgi che tutto prosegue con il suo ritmo autonomo e ben scandito, un carillon con l’albero in piazza, le luci alle finestre, le vetrine illuminate. A Guardiagrele non in porta qual è la tua sede , non importa con quali occhi la guardi, continua a girare e tu giri con lei. Piano-Villa, Villa-Piano, col freddo, con il caldo, con il vento, una transumanza collettiva e involontaria. Essere fuori sede inizialmente ti esalta, poi torni ed ogni volta lasci un pezzo di te tra un vicolo e una balconata; i lampioni lo illuminano con la loro luce ma poi la nebbia lo appanna e quando con le mani togli l’umido per vedere quale dei tanti pezzi fosse, lo guardi con un’aria diversa, l’aria di quando ritrovi qualcosa che avevi perso o che semplicemente ti apparteneva, l’aria di quando le cose non le vedi più con la luce dei lampioni, quella arancione che scalda, ma con la luce dei palazzi, la luce al neon che illumina dall’alto le strade grandi delle città che ti adottano, che sono tutte diverse e tutte uguali perché sei sempre un po’ nomade tra le cucine piene di piatti sporchi universitari, e i grembiuli temporanei come i lavori da cameriere che trovi in qualche strada marginale. Fuori sede. Raccogli tanto, ricevi poco perché parti per te, perché in fondo nessuno riconosce davvero i tuoi sforzi. Il carillon gira, attrae certo, ma non si interessa di quello che fai, anche se quando torni lo rendi più luminoso, più bello perché lo stai implicitamente arricchendo di nuove storie, di nuove esperienze, di venti più freddi e di accenti diversi; dovrebbe fermarsi un attimo e guardarti negli occhi, capirebbe la tua storia di pochi mesi o di tanti anni, capirebbe che il neon non scalda, che l’aria del mattino a volte può essere terribile da respirare quando è piena di smog e di impegni. Guardare negli occhi vuol dire dare un’identità, è un atto di un paio di secondi, per alcuni sono abissi. Guardare con più attenzione la realtà di sempre più ragazzi che in ambito provinciale non trovano niente, che tornano dopo giorni di impegno e che non vengono minimamente considerati vuol dire riconoscerli e arricchirsi insieme al proprio paese,piccolo o grande che sia, vuol dire colorare quei percorsi obbligati di racconti nuovi di grandi città e di lingue diverse, creare degli scambi. Andare fuori sede senza spostarsi di un millimetro, è la bellezza delle storie personali, basta interessarsene.
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