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Alla ricerca della propria identità

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“Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio, se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come meriggio”. Un messaggio di “diversi” anni fa del profeta Isaia, ma estremamente attuale in una società come la nostra fatta di individualismo ed egoismo. Un messaggio che chiede ad ognuno di noi di riscoprire ciò che di grande possiamo essere per noi stessi e per gli altri, per non vivere una vita da passivi spettatori, o da microcosmi chiusi in se stessi, che vanno avanti nella totale indifferenza di quello che accade agli altri, pensando che ognuno possa arrangiarsi alla meno peggio, e sperando che qualcun altro pensi a sollevare l’altro. Esistono delle regole non scritte nei rapporti umani in generale, ma soprattutto in quei rapporti che si dicono essere di amicizia, dove la sofferenza altrui non dovrebbe permettermi di andare a dormire la notte, specie pensando al bene che potrei fare e che non sto facendo. Molti si preoccupano “semplicemente” di non fare il male, avendo tra l’altro un’idea molto personale, su misura, di cosa sia il male e cosa sia il bene, trascurando un aspetto fondamentale: quante richieste di aiuto, di ascolto, di sostegno, di un sorriso, di compagnia, abbiamo ignorato consapevoli di farlo. Non esiste nessuna persona che non sia all’altezza di poter portare gioia e speranza. Nessuno ha talmente troppa ombra dentro di se, nessuno è esente da ferite aperte e mai rimarginate tali da non poter aiutare. Il profeta Isaia dice infatti: non preoccuparti della tua ombra e delle tue ferite, ma della “città” dove c’è fame e sofferenza, allora guarirai. Tutti siamo, o potremmo essere, dei guaritori feriti. Non chiuderti sulla tua storia, sulle tue ferite, sulle tue sconfitte, sui tuoi peccati e sui tuoi difetti: guarisci gli altri e ti illuminerai. Non è importante se la tua luce sia quella di una candela, di un lumino, di un lampadario da sala da ballo, o da neon di un’insegna che illumina in piena notte. Sii luce per chi ti chiede aiuto. Se uno non è “fratello” dell’uomo, semplicemente non è. Se la tua vita non è presenza luminosa per qualcuno che cerca luce e ti chiede luce, non è nulla. O rischiari, anche solo per un istante, la tristezza di chi soffre, o non sei. E non serve sapienza o intelligenza, eccellenza di parola o discorsi persuasivi, semplicemente basta essere se stessi, semplicemente essere ed esserci. Esistono folate di vento così forti da spegnere la candela, e in quel momento è difficile essere luce anche solo per se stessi, e possiamo destabilizzare gli altri facendoli perdere nei tortuosi sentieri della vita. Ma è proprio nell’incontro con l’altro, quando l’io e il tu formano il noi, che si diventa luce, proprio come due ceppi sul fuoco che si ravvivano a vicenda. Essere luce è un po’ come essere sale, cioè come dare “senso”, sapore, all’esistenza altrui. Quando però il sale perde il sapore non serve più a nulla. Cerchiamo di non essere uomini e donne d’ombra, cerchiamo di non perdere sapore, proviamoci ad essere come il granello di sale, che nella sua semplicità è comunque qualcosa di prezioso. Qualcosa di cui viene notata l’assenza quando manca.
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