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CERIMONIA COMMEMORATIVA DELLE FOIBE: FRATELLI D’ITALIA NON IGNORATE

Un passato che non deve passare

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Ore 12.00, Salone comunale. L’inno d’Italia apre la cerimonia davanti la presenza degli studenti delle scuole superiori. Un libro di storia non basta al sapere, soprattutto se per anni si è voluto negare, per ideologie politiche, per silenzio dello Stato, un qualcosa che è accaduto. 15.000 persone lasciate morire in cavità naturali, chiamate foibe, di cui la Iugoslavia è piena per la natura carsica del suo territorio. La sola colpa, essere italiani. Tito ed i suoi partigiani, in un periodo in cui venivano fuori le varie identità nazionali, progettarono di costruire la “Grande Iugoslavia”. Scopo, liberarsi degli oppositori fascisti e eliminare chiunque potesse mantenere l’italianità nei territori della Dalmazia, Istria e Fiume. Territori che fino al ’43 erano italiani. C’è smarrimento d’identità. Smarrimento di un popolo che dovrà abbandonare la sua terra, portando con sé qualsiasi cosa. «Questa terra ho nelle vene, questa terra mi appartiene[…]. Vojo tornà, voglio tornare a casa mia! Istria, Fiume e la Dalmazia, né Slovenia né Croazia, terra rossa, terra istriana, terra mia, terra italiana», canta Adriano Casissa. «Si sentivano gli urli nella notte», raccontano i pochi sopravvissuti: la fucilazione avveniva al bordo della foiba e se non si moriva sul colpo si cadeva giù ad aspettare la morte. Solo nel 2004, con la legge n. 92 del 30 marzo è stato istituito il “Giorno del Ricordo”, in nome delle sue vittime. Fabio Di Cocco illustra la testimonianza di uno dei due unici sopravvissuti, Graziano Udovisi: « Dopo giorni di dura prigionia, durante i quali fummo spesso selvaggiamente percossi e patimmo la fame, una mattina, prima dell'alba, sentii uno dei nostri aguzzini dire agli altri ‘facciamo presto, perché si parte subito’. Infatti poco dopo fummo condotti in sei, legati insieme con un unico filo di ferro, oltre a quello che ci teneva avvinte le mani dietro la schiena, in direzione di Arsia. Indossavamo i soli pantaloni e ai piedi avevamo solo le calze. Un chilometro di cammino e ci fermammo ai piedi di una collinetta dove, mediante un filo di ferro, ci fu appeso alle mani legate un masso di almeno 20 k. Fummo sospinti verso l'orlo di una foiba, la cui gola si apriva paurosamente nera. Uno di noi, mezzo istupidito per le sevizie subite, si gettò urlando nel vuoto, di propria iniziativa. Un partigiano allora, in piedi col mitra puntato su di una roccia laterale, c'impose di seguirne l'esempio. Poiché non mi muovevo, mi sparò contro. Ma a questo punto accadde il prodigio: il proiettile anziché ferirmi spezzò il filo di ferro che teneva legata la pietra, cosicché, quando mi gettai nella foiba, il masso era rotolato lontano da me. La cavità aveva una larghezza di circa 10 metri e una profondità di 15 sino la superficie dell'acqua che stagnava sul fondo. Cadendo non toccai fondo e tornato a galla potei nascondermi sotto una roccia. Subito dopo vidi precipitare altri quattro compagni colpiti da raffiche di mitra e percepii le parole "un'altra volta li butteremo di qua, è più comodo", pronunciate da uno degli assassini. Poco dopo fu gettata nella cavità una bomba che scoppiò sott'acqua schiacciandomi con la pressione dell'aria contro la roccia. Verso sera riuscii ad arrampicarmi per la parete scoscesa e guadagnare la campagna, dove rimasi per quattro giorni e quattro notti consecutive, celato in una buca. Tornato nascostamente al mio paese, per tema di ricadere nelle grinfie dei miei persecutori, fuggii a Pola. E solo allora potei dire di essere veramente salvo ». Il discordo del sindaco Salvi alle nuove generazioni: «È la tragedia più oscura della storia, c’è l’esigenza di far chiarezza. Se vogliamo scrivere una storia condivisa è indispensabile raccontare quello che è successo. I libri di testo, sui quali hanno studiato i nostri figli, ignorano l’argomento: da un sondaggio del 2003 condotto su studenti prossimi alla maturità, viene fuori che il 60% non conosce la parola “foiba”, il 26% ne ha sentito parlare, senza saper ricondurre i fatti, solo il 14% sa cosa sia. Il silenzio dello Stato pesa sulle nuove generazioni, solo ora si sta trovando il coraggio di fare i conti con il proprio passato. Vennero uccisi e torturati uomini, vennero seviziate e stuprate donne. L’esodo di un popolo massacrato e cacciato dalla propria terra, ignorati dall’Italia, ridotta a cumulo di macerie e non pronta ad accoglierli. Senza solidarietà, considerati semplicemente cittadini di serie B. Anche il presidente Napolitano condanna la congiura del silenzio, dietro la quale non bisogna nascondersi per ideologie politiche. Ricordare è il nostro dovere di cittadini italiani, lo dobbiamo ai nostri figli che hanno bisogno di riconoscersi dietro una storia comune. La memoria non è mai un risarcimento equo ma, è pur sempre un inizio. La nuova Europa ha bisogno di pace, libertà e tolleranza». Dovremmo condannare qualsiasi atto crudele impartito all’umanità, riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo. Accantonare le nostre bandiere politiche, siano esse rosse o nere per avvicinarci al bene pubblico. Non esistono massacri giustificabili, giusti flagelli: non c’è niente che valga la vita di un uomo. Non esiste una guerra giusta, preventiva o umanitaria. Le pagine di storia continueremo a scriverle non chiudendo gli occhi.
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