INNO DI MAMELI, TRA SOGNI E SANGUE DEGLI ITALIANI

Storia di un canto nato per unire

Serena Taraborrelli
17/03/2011
Attualità
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Cantato da i Mille e da menti rivoluzionarie che crebbero in un ideale di libertà. Sogni di uomini, trascinanti e guerrieri, che vollero una Patria non più occupata da stranieri dispotici e divisa in tanti piccoli Stati. Cantò Milano durante le sue cinque giornate, cantò per liberarsi dagli austriaci. Cantò Mazzini immaginando la sua Giovine Italia, democratica e repubblicana. Cantò il Regno delle due Sicilie liberatosi dai Borboni. Cantò Garibaldi stringendo la mano a Vittorio Emanuele II a Teano. Cantò Goffredo Mameli il 17 settembre 1847 in un pomeriggio in cui scrisse di getto un canto per i combattenti del Risorgimento. Vi racchiuse la determinazione e la volontà di quei giorni, il sangue che vide e che versò per la sua Nazione. Genovese, partecipò attivamente per la liberazione della sua città. Successivamente partecipò contro i francesi per la liberazione di Roma. Il 3 giugno, al Vascello, venne ferito ad una gamba. La ferita degenerò in cancrena, nonostante l’amputazione. I suoi sogni ed i suoi 22 anni si spensero, in nome della sua Italia, il 6 luglio del 1849 senza aver potuto vedere la sua utopia diventare realtà. La mano della morte può ben poco contro l’immortalità della poesia che ha lasciato in eredità ad ognuno di noi. Le sue parole e la sua musica (composta da Michele Novara) ci emozionano e fanno battere il cuore. Ci fanno sentire fratelli di una stessa patria. Ed è proprio dedicando ad essi il suo inno, chiamandoli fratelli li rende uguali ed uniti, per la legge di Dio e dell’umanità. Per i figli d’Italia era giunto il momento di diventare popolo. Oggi la nostra Patria è lontana dall’essere «calpesta e derisa», dando per scontato la sua indipendenza, la sua democrazia, la sua Costituzione repubblicana e può risultare difficile comprendere fino in fondo le emozioni, le speranze che quel «fratelli» riusciva a suscitare nei patrioti che per quel ideale stavano morendo. Il fondersi insieme senza appiattire le diverse realtà regionali. «Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa»: si apre affondando le radici nella storia di Roma, evocando Scipione l’Africano, che respinse Annibale dal suolo italiano, il condottiero repubblicano (e non Cesare, un imperatore). La metafora sottolinea la voglia di combattere così come fece Roma gloriosa. «Dov’è la vittoria? Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò»: la vittoria porga il capo all’Italia perché Dio creò quest’ultima schiava di Roma. «Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte, l’Italia chiamò»: uniamoci in una schiera di combattenti (la coorte era la decima parte della legione). «Noi siamo da secoli calpesti, derisi, perché siam popolo perché siam divisi: raccolgaci un’unica bandiera. Una speme: di fonderci insieme, già l’ora suonò»: gli italiani non sono ancora un popolo, etnico e politico, perché non unico. Non hanno uno Stato né una lingua comune. Calpestati ed invasi dagli stranieri. «Uniamoci, amiamoci, l’Unione e l’Amore rivelano ai popoli le vie del Signore; giuriamo far libero il suolo natio: uniti per Dio chi vincer ci può?»: obiettivi dei combattenti mazziniani, obiettivi della rivoluzione nazionale. «Dall’Alpi alla Sicilia dovunque è Legnano ogn’uomo di Ferruccio ha il core, ha la mano, i bimbi d’Italia si chiaman Balilla, il suon d’ogni squilla i Vespri suonò»: dopo il richiamo alla Roma repubblicana è la volta di quella comunale. La battaglia di Legano che segnò la vittoria dei Comuni lombardi contro le milizie dell’imperatore Federico Barbarossa; Francesco Ferrucci morì difendendo la Repubblica fiorentina dall’assedio delle truppe Imperiali; tutti i bambini dovranno ereditare lo spirito rivoluzionario del genovese Giovan Battista Perasso, detto Balilla, che sferrò una pietra contro i soldati austriaci, facendo scattare la rivolta che portò alla liberazione della sua città. «Son giunchi che piegano le spade vendute: ah l’aquila d’Austria, le penne perdute, il sangue d’Italia bevè, col Cosacco il sangue Polacco: ma il cor le bruciò»: le spade vendute, le armi dei soldati mercenari, si piegano flessibili come molli giunchi. L’aquila, simbolo dell’Impero Austro-Ungarico, ha bevuto il sangue degli italiani ed, insieme ai russi, ha bevuto anche quello dei polacchi. Sangue che le ha bruciato il cuore. Il Canto degli italiani riesce a far vibrare l’anima e a suscitare quel sentimento di appartenenza ad una terra, ad una lingua, ad una bandiera. A coinvolgere ed unire chi crede nei sogni e si sente parte di un’unica lunga Storia comune. Chi pur cantandolo solo durante un incontro di calcio, dimenticando le parole, lo sente proprio: basta una musica, basta un battito per difendere un ideale.

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