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Che bordello!

Il presunto scandalo che vedrebbe coinvolti la minorenne Karima, meglio nota come Ruby, e le abitudini sessuali del Presidente del Consiglio, torna nella gossip-cronaca della settimana a suggerire nuovi spunti di rifless

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Dalle trascrizioni dell'udienza preliminare, svoltasi lo scorso lunedì, a carico di Lele Mora e Nicole Minetti, consigliere regionale del Pdl, sembra che il procuratore aggiunto Pietro Forno abbia usato la parola "bordello" per definire il traffico di ragazze verso Arcore, suscitando polemiche e indignazione. Lo stesso Forno ha poi rettificato sostenendo che il suo era un riferimento alla strutturazione delle “case chiuse”, modello perseguito dalla legge Merlin. Dunque “bordello” o “casa chiusa”? Precisazione poco significativa visto che si tratta della stessa realtà ma può essere interessante approfondire quel meccanismo psicologico e linguistico in grado di trasformare il “bordello” in qualcosa di meno sconcio e socialmente accettabile. Parlando, soprattutto in situazioni più formali, in cui si tende a controllare maggiormente il linguaggio, ci si avvale infatti di mezzi per sostituire termini troppo evocativi: è il caso di Forno che usa “bordello” e poi rettifica con “casa chiusa”, è il caso delle comuni sostituzioni linguistiche, “operatore ecologico” per “spazzino”, “diversamente abile”, “non vedente”, “non udente” per indicare problemi fisici, che le convenzioni sociali e il pudore personale tendono a tabuizzare, cioè a vietare. Le interdizioni linguistiche colpiscono oggetti diversi e il loro potere varia da una società all’altra; tuttavia è possibile individuare aree maggiormente sensibili alla questione: la posizione sociale (ricchezza, povertà, rapporti di lavoro), i difetti fisici, i vizi e soprattutto la sfera sessuale. In una civiltà progredita i divieti linguistici tendono ad aumentare, sono infatti più numerose le cose interdette e la situazione è resa più complessa dagli eufemismi sociali, a volte dall’eccesso di pudore. Le interdizioni che operano nelle lingue moderne sono più sottili e rientrano nell’ambito dell’estetica (“non è opportuno”, “non è bello”), a differenza delle società primitive in cui il tabù ha risvolti magici e religiosi (molti sono i casi in cui non si nominano gli dei o si usano perifrasi benevole per esorcizzare la paura). Tornando alla parola bordello si sottolinea la sua origine germanica, da “bordel” che significa “casetta, capanna di assi”. Si trova già in Dante («Ahi serva Italia,... Non donna di province, ma bordello!» ) ed è - sebbene oggetto di rifiuto - molto frequente nel linguaggio comune (a differenza dei più colti “postribolo” e “lupanare”). In senso figurato ricorre come sinonimo di “chiasso, confusione”. Il pudore rispetto alla materia trattata ha dato origine, soprattutto nel linguaggio giornalistico, a sostituti meno evocativi che però nel tempo hanno perso la loro neutralità: “casa di tolleranza”, “casa di malaffare”, “casa equivoca”. Interessanti in questo senso le lettere inviate alla senatrice Merlin negli anni ‘50, proprio dalle case di tolleranza, definite “case di Tè”, “cosiddette pensioni”, “questi posti”. In tempi più recenti, 2001-2003, i dizionari dell’uso (De Mauro, Zanichelli) riportano l’espressione presa in prestito dall’inglese, “eros center”, che va ad aggiungersi al ricco lessico tradizionale per indicare i luoghi della prostituzione. Vi è insomma, l’imbarazzo della scelta, tanto che l’anglicismo apparirebbe davvero superfluo, se non avesse un aspetto di neutralità e asetticità sconosciuto ai corrispondenti italiani, in quanto privo della connotazione negativa, morale e sociale, del più noto “bordello”. Ancora una volta la lingua scopre le carte dell’ipocrisia e ci rivela il diffuso timore a chiamare le cose con il loro nome, a diluire i significati fino a renderli innocui, nel tentativo di dare una mano di bianco alla realtà.

Suggerimenti bibliografici

AA.VV “Cara senatrice Merlin…Lettere dalle case chiuse”, EGA edizioni, Torino, 2008 Vito Tartamella, “Parolacce. Perché le diciamo, che cosa significano, quali effetti hanno”, Bur Rizzoli, Milano, 2006
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